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Chi ti ha insegnato a prenderti cura della vita?
(Penso la vita come un dono alla vigilia del pensiero, un dono che non è dono di qualcosa né di qualcuno).

La domanda che ci è stata posta, viaggia dritto al cuore.
Al mio innanzitutto; come uomo e come psicanalista.
Tanto che potrei dire che la psicanalisi non è per me solo una professione ma la maniera di prendersi cura della questione del “prendersi cura” di se, del prossimo e della vita.
La cura, nelle parole del filosofo Walter Benjamin, è attenzione, e l’attenzione è la preghiera spontanea dell’anima affinché le cose siano benevolenti e mostrino il loro lato notturno, si concedano al “canto”, per poter dire ciò che di esse, alle cose stesse, rimane sconosciuto: la loro precarietà, la fragilità, il loro passaggio su questa terra.
Perché la vita passa senza dare, senza darsi, alcuna parola.
E proprio noi, i mortali, i più precari, i passanti, siamo incaricati di fermarla, di rivolgerle parola.
Noi siamo avviati a questionare le cose, per sapere da dove vengono e dove vanno.
Per farlo dobbiamo rimanere inerenti, dobbiamo rimanere fedeli, a ciò che delle cose, come dell’altro in generale, si intima in noi.
E’ il mistero dell’incontro.
Nell’ascolto analitico cerchiamo continuamente di farci strada verso ciò che rimane di un incontro, di udire qualcosa della pulsazione di questo che chiamiamo inconscio, vero luogo dell’annodamento all’altro.
E’ solo entro lo spazio dell’ascolto, che è un colloquio, qualcosa dell’altro si può dare, nel momento in cui spazziamo il campo dai nostri fantasmi e dal rumore di fondo della nostra sopravvivenza nevrotica (la dannata voglia di dominare gli eventi) lasciando che si costituisca colui o colei al quale ci dedichiamo.
L’altro viene ad essere allora.
Ogni volta, la prima volta. La sua presenza è una smisurata alterità con cui fare i conti.
E’ possibile?
Che ne è della nostra presenza di fronte a quest’altra presenza così radicalmente estranea?
O noi o lui?
O la sua presenza che non lascia parola innocente perché ogni parola è un tradimento, perché ogni nostra parola non è la sua, o la nostra presenza, la nostra testimonianza di questo incontro, nella speranza che gli si rimanga il più possibile fedele, che non si smarrisca quanto meno una eco di questo altro, di colui che ha parlato per primo.
La vita passa senza dare parola, senza darsi parola e accade come eredità impossibile al nostro pensiero, se non fosse per una certa necessità, con cui va a coincidere, una legge al fondo del nostro cuore, che la intima, stavolta nel senso che la presenta come un ordine perentorio, a cui siamo chiamati a rispondere, ciascuno a suo modo.
Questa chiamata è una chiamata vuota, una chiamata di nulla, priva di contenuti: un soffio.
(La parola poetica è un alitare nel vento, diceva Rilke).
Noi la avvertiamo come necessità, come un esigenza che culla l’essere e lo fonda come possibilità, come avvenire.
Alla sua chiamata potremmo rispondere “Eccomi!”, nell’ immenso sacrificio di tutte le parole, i discorsi, i gesti, potremmo testimoniare integralmente la vita in una spaventosa riduzione al mutismo, per tentare di dirne il silenzio.
Si può sacrificare l’intera esistenza, da cima a fondo, ma cosa resterebbe?
Cosa avrebbe da dire la cenere, dopo questo immenso olocausto di vita?
Non una parola le potrebbe cavare eppure essa è del fuoco più di ogni altra cosa.
Lacan – psicanalista francese – diceva che l’unico atto riuscito è il suicidio.
Ecco allora che ci muoviamo in un spazio-tra-le-due-morti, (per alcuni proprio questo sarebbe l’essenza della tragedia); lavitalamorte (scriveva il filosofo Derrida) come silenzio di fondo che chiama a quella fedeltà che si può dare solo nella fusione, nell’abbraccio mortifero con la vita con cui ci si dovrebbe intendere senza aprire bocca – questo sogniamo nelle nostri notte più ardite – e l’altra morte, ribaltata nella parola. Morte commentata, attesa dall’avvenire del discorso e progettata come sapere sulla morte; vita presa ed esaurita nella lingua, fine delle vicissitudini del domandare e del desiderare.
Come ci si prende cura della vita diventa una domanda che assume i toni di un invito a riflettere sui modi di poter essere fedeli alla vita pur facendone parola.
(Una parola-tenda, scriveva il poeta Paul Celan, che offra ospitalità e possa resistere allo spirare di venti contrari)
Come si resiste in questo spazio-tra-le-due-morti?
La parola “resistenza” assume qui il suo aspetto più nobile di un mandato etico, ben lontana dal significato che assume nella teoria psicanalitica classica.
Essa va nella direzione di un assunzione di responsabilità rispetto a questa chiamata e ci conduce alle soglie di quella necessità che ci penetra nel profondo e che coincide con la posta massima che l’inconscio mette in campo: desiderare ciò che non fu desiderato.
Qui si gioca l’ambivalenza del concetto di resistenza che può andare a coincidere con un movimento di rifiuto.
Ma se rifiutiamo ciò che fece a meno di noi, in noi ed è adesso per noi, se sia sul piano individuale che collettivo, ci crediamo e ci muoviamo come fossimo padroni di noi stessi (come si raccomanda in maniera più o meno velata in molte pratiche del benessere), tale necessità si manifesterà in noi in modo distruttivo e perverso nella forma di quello che Freud chiamava ritorno del rimosso – di cui i nostri sintomi sono la traccia – cioè il ritorno dell’impossibile come tale.
Freud sosteneva che siamo responsabili anche dei nostri sogni, di quegli aspetti cioè della vita che si testimoniano nella nostra intimità, lacerandola, portandovi una lingua estranea, fatta di immagini e di brandelli di discorso. Nel luogo di un estrema solitudine, di un intimo restringimento, proprio dove il nostro dominio appare incorrotto e mondato dalla presenza dell’altro, si manifesta qualcosa di misterioso e di radicalmente estraneo.
Freud ha avuto il merito di provare a pensare il campo del sogno come il luogo in cui siamo di casa e nel quale si tratta di tornare non come si torna al passato, ad un passato che una volta è stato presente, bensì nei termini di un avvenire, di un venire alla luce in questo luogo d’essere a cui siamo da sempre consegnati e a cui, anche il sogno, appartiene.
Die Traumdeutung” è il suo saggio del 1899. La traduzione del titolo originale “L’interpretazione dei sogni” non è esatta e potremmo preferirle un’altra: “La significazione della ferita”.
Da Traum, sogno ma anche ferita e Deutung, significazione.
La ferita è questo campo aperto fra le due morti, tra il tacere della vita e la morte della lingua, che tenta di essere assorbita dal luogo da cui scaturisce, per cercare la testimonianza integrale, senza alcun resto, tenendosi tutt’uno con ciò che l’afferra.
Afferrata, avvinghiata, la vita lascia una traccia.
E‘ una traccia che avvia alla scrittura ma che non si dona mai integralmente, non passa mai tutta aldilà: la nostra lingua materna. Il segno dell’incontro con ciò che ci rimane invivibile.
Forse, per penetrare un po‘ il mistero, è una scrittura che si scrive nel luogo di un rapporto smisurato con la vita e al contempo di una solitudine altrettanto smisurata che non conosce testimoni: una scrittura che rimane illeggibile.
E‘ la solitudine dell’infante che s’impasta con l’aria che lo invade e più avanti del bambino, parlato, desiderato, avvolto dai discorsi familiari come un scialletto che continuerò a tessere per tutta la vita, per trovavi un po’ di tepore.
Molti saranno gli enigmi per un essere di parola.
Ma è anche la solitudine di certi passaggi in analisi, del poeta e dell’artista: la cui opera, se si mantiene fedele a questo iniziale segreto, è lascito, testimonianza di una pura singolarità che si erge, che sta al cospetto: nella memoria delle proprie date e nell’azzardo cerca un testimone per quella solitudine; un testimone per quel testimone muto che si mantiene tutto con l’accaduto.
La verità è sempre singolare.
Afferrata, avvinghiata, la vita lascia una traccia.
Noi non facciamo che lavorare questa traccia.
Nel gesto artistico, nella mano che cresce salda al vaso, come dice un poeta, non vi può essere altro testimone che la mano stessa in un gesto che arresta nella solitudine radicale e che lascia cadere la terracotta temprata da quell’incontro.
In questo senso il gesto artistico, come la parola sofferta e strappata al silenzio in analisi, ripetono il destino di quell’incontro fra due “tu” smisurati, da cui qualcosa si è staccato ed è rotolato al fondo dell’essere.
Un qualcosa che è solo ed in cammino.
Rimanergli inerente è prendersi cura della vita per guadagnare direzione e destino.

Nicola Mariotti

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