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Mi chiamo Eduardo Landim, ho 32 anni, sono brasiliano e sono uno degli attori dell’Open program del Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards.
Innanzitutto, vorrei sottolineare l’importanza dell’iniziativa di Villa Romana, la proposta di questa breve ma rivoluzionaria avventura della Scuola Popolare. È stata per noi una bella sorpresa e una sfida: siamo un gruppo teatrale, il nostro mestiere prevede, sì, l’incontro con il pubblico ma per lo più nel contesto di una struttura performativa. Per noi, elementi quali il canto, la danza e la recitazione sono sempre stati la base principale dell’incontro con l’altro. Tuttavia, la proposta di Villa Romana ci è sembrata sensata, sia in relazione all’impossibilità di incontrare il pubblico nei modi a noi più congeniali, a causa dell’emergenza sanitaria, sia in relazione al nostro percorso artistico e alla riflessione sulla nostra funzione nella società. In questo contesto, eravamo ancora artisti, ma denudati degli ornamenti appartenenti all’universo dello spettacolo. Eravamo un gruppo di persone libere di improvvisare, noi quanto il “pubblico”, senza una struttura teatrale, seppure all’interno di un contesto in parte strutturato, in modo tale da permettere il dialogo e offrire spunti per la riflessione.
L’evento da noi proposto per la Scuola Popolare si intitolava „Cittadinanza attiva e i limiti dell’innocenza: una conversazione su responsabilità, creatività e la costruzione di un mondo nuovo“. Si è svolto in due giornate con una settimana di intervallo fra di loro. Oltre all’opportunità di condividere esperienze e pensieri legati a tematiche toccate dal gruppo nel corso dei suoi quasi quindici anni di vita, abbiamo potuto ascoltare punti di vista diversi e riflettere insieme alle persone presenti in un modo che crediamo significativo e che, ne siamo certi, sarà un arricchimento per il nostro processo creativo. Processo che prosegue, nonostante le difficoltà del particolare momento che stiamo vivendo.
Lo scambio di riflessioni a proposito di argomenti delicati e importanti, quali responsabilità e cittadinanza attiva, razzismo interpersonale e razzismo sistemico, richiedeva un’attenzione particolare, non solo nel modo di porre determinate questioni, ma anche nella maniera di ascoltare ciò che veniva detto. L’efficacia della nostra azione, del nostro essere credibili su questo “palco” per noi così inusuale, risiedeva nella possibilità che l’esercizio di una cittadinanza attiva si manifestasse nell’atto stesso di discutere il significato e le implicazioni dell’essere cittadini attivi. Insomma, non si cantava, non si ballava, non si recitava, ma è stata una scoperta sorprendente che l’assenza degli elementi performativi propri del nostro mestiere non precludesse di per sé la possibilità che l’incontro con il pubblico avesse comunque una qualità “teatrale”, basata, appunto, su questa necessità di un certo modo di essere presenti, di parlare, di ascoltare.

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