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9 Settembre 2020
Questi due testi sono stati scritti ognuno senza sapere dell’altro, e, per profonda risonanza, si integrano perfettamente.

Il lenzuolo bianco copriva alla rinfusa i corpi che si toccavano in alcuni punti; il libro e gli occhiali erano sul bordo sinistro del letto. Avevamo già preso il caffè, le tazzine erano ancora sul vassoio, dalla parte opposta del libro.

Non ricordo esattamente per quale associazione del pensiero ma presi il libro che avevo iniziato la sera e lessi il primo capitolo ad alta voce. La ‘critica rivoluzionaria di massa’ che avveniva durante la Rivoluzione Culturale di Mao era descritta attraverso la voce di un ragazzo, raccontava la storia di suo padre (avevo comprato questo libro leggendo la quarta di copertina che ne parlava come di un giallo ambientato a Shanghai). Ascoltò, poi parlò dell’ideologia, del potere che decide, di come Gramsci fosse dovuto morire (forse) allo scopo di impedire la formazione di un pensiero indipendente, di come Togliatti guardasse all’unione sovietica del tempo, di come Luciano Canfora avesse provato a replicare e proporre e di come Natta gli avesse detto ‘compagno Canfora, la storia è complicata’.

Non perdevo una parola, ma pensai pure a tutt’altro: al professore di storia e filosofia che parlava dei romanzi che raccontano le storie e che leggendoli capivi la Storia. Il contrario dei fatti, di un soggetto astratto che dice ciò che succede: storie costruite che affondano nella verità.

La ‘critica rivoluzionaria di massa’ mi faceva sorridere, forse perché non riuscivo ad essere una critica? (e quella finzione ideologica collettiva svelava l’inganno?). Il mio modo di fare storia dell’arte era diventato scrivere la mia storia, raccontare ciò che mi succede attraverso espedienti narrativi (veri): mettevo insieme autobiografia e dialogo, un ossimoro solo apparente.

Non era la prima volta che mi capitava di pensare che avrei voluto dire al professore di filosofia che avevo capito, ma lui non c’era più ed era una delle poche morti che mi dispiacevano davvero perché avrei voluto parlargli ancora. Per molti anni mi aveva messo a disagio, da quando aveva abbassato la puntina del giradischi su ‘pazza idea’ di Patti Pravo. Lo squilibrio di potere era dalla sua parte, io fuggii timidamente e senza dire una parola. Ma ‘la storia è complicata’, appunto. Io avevo fatto tesoro della lezione, ero diventa un soggetto che raccontava non solo di me (non ero la sola, anzi eravamo in tante).

Chiara mi spinse ancora un po’ più in là: ‘avresti dovuto, alla fine del tuo intervento, leggere anche le tue cose, insistere ancora di più su questo carattere autobiografico. Quando hai parlato del lavoro di Stefania e di Helen si sentiva che c’era un trasporto diverso. Dovevi parlare di più delle artiste con cui condividi delle cose, perché è proprio lì che avviene quella piccola magia che conosciamo.’ In effetti non avevo letto i miei scritti. Avevo letto quelli degli altri, avevo parlato di come la storia personale, i gesti quotidiani, anti-eroici, le chiacchiere mentre si fa altro, legano piccole comunità di donne (e uomini) che si raccontano e si ritrovano.  Qualcosa di me ho raccontato però, di quando ho scovato in una bancarella di libri usati a Palermo, un libro che si chiama ‘In principio era Marx’, nella cui introduzione l’autrice scrive a un’altra donna. Un intervento completamente autobiografico che rilegge una storia importante in un modo diverso. Io pure cercavo di fare così: scrivevo dei fatti miei e delle persone che incontravo, in un miscuglio completo di arte e vita.

Chiara aveva proposto di fare piccoli gesti, come raccogliere foglie e fiori nel giardino della villa (qualche anno prima avevamo costruito dei fischietti di terracotta a Palermo). Insieme ad un piccolo gruppo di persone abbiamo composto i fiori e le foglie su delle lunghe sete stese su dei tavoli e alte come un corpo umano; Chiara ci raccontava delle creature dei giardini, dei fiori e di come si sarebbero potuti imprimere. Una volta sistemati i fiori le abbiamo spruzzate, arrotolate e lasciate li per la notte. Il giorno dopo abbiamo letto, sfogliato libri che avevamo portato, io ho parlato un po’ e poi abbiamo srotolato le sete. Erano ancora bagnate quando le abbiamo appese con delle pinze su un filo di metallo che avevamo legato fra due alberi. Come bucato al sole il colore dei corpi vegetali svolazzava davanti ai nostri occhi. In un cerchio sparso ci sedemmo, sull’erba davanti a quei protettori del giardino che diventavano sempre più verdi, gialli, violetti. C’erano anche dei momenti di silenzio, come a fare spazio a queste presenze che si univano al gruppo. ‘Ha la faccia tonda’, ‘ ha una corona in testa’, ‘ha le gambe piccole e storte’, ‘ha la gonna’, ‘la sua bocca è enorme’, ‘a me la bocca sembrava quell’altra più sopra’, ‘noo quello è il naso!’. (DF)

Alla fine, ci siamo seduti tutti sul prato.
Nessuno aveva voglia di andarsene, di chiudere.
Abbiamo aggiunto ancora qualche poesia, qualche brandello di lettura, per prolungare ancora.
Siamo rimasti lì a guardare quegli spiritelli che ci svolazzavano intorno, con la luce del giorno che finiva.
Forse aspettavamo qualche loro parola.
Oppure semplicemente ci godevamo quel tempo guadagnato, quel momento di verità silenziosa. (CC)

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