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Marzo 2020, pendici del Montalbano in provincia di Prato. L’Italia entra in lockdown e per me si apre un piccolo universo nel raggio di 300 metri da casa: una fornace di terracotta semi-crollata, vasche di raccolta per l’acqua piovana invase di rovi, canali di drenaggio ancora funzionanti dopo decenni di abbandono, un boschetto in fiore di ciliegi inselvatichiti, ributti di vigne al bordo delle strade, sotto forma di tralci striscianti da radici mai estirpate, o in cerca di arbusti a cui “maritarsi”, secondo il vecchio uso contadino, che sfruttava un albero come supporto vivente della vite.
Nella stasi della quarantena i sensi si abituano gradualmente a percepire le tracce di un paesaggio sommerso, al di sotto della patina sgargiante della Toscana cliché creata dall’industria cinematografica, alimentare, enologica e turistica, che abbiamo finito per confondere con la realtà. Questo infra-paesaggio dai colori desaturati, terrosi, che adesso intravedo come una trama onnipresente, è quel che rimane di un sistema economico dismesso, fatto di necessità, dove il cipresso aveva un valore d’uso specifico, ad esempio, perché il suo legno non si tarla, e non serviva a decorare i tornanti collinari (che nessuno più fotografa). Quel sistema estinto è come un grande corpo, che in 60 anni di abbandono è diventato sostrato nutritivo della flora selvatica, abitato da volpi, lepri, gatti randagi, daini e cinghiali – la notte li sento grugnire sotto casa, la mattina constato con frustrazione che le bietole selvatiche sono state divorate, la terra è arata in profondità dai grugni famelici in cerca delle radici dolciastre. Ho cominciato a mangiare erbe spontanee, per evitare le auto-certificazioni e le file davanti alla piccola coop locale, mentre la curva dei contagi si impenna e un focolaio in una rsa poco lontana uccide gli anziani del paese: nel giorno della morte della centenaria di Comeana una cappa di tristezza opprime la campagna (non come metafora ma come un fatto fisico, o almeno così mi appare).
Passano le settimane, senza il fluido economico che la nutre la patina sgargiante del #tuscanlifestyle è ormai sottile, lacerata. Viceversa il corpo sommerso è sempre più nitido, affiora continuamente alla superficie, come un popolo di fantasmi che si risveglia in sussulti.
La primavera procede e le erbe spontanee diventano fibrose, comincio a fare l’orto, ma la terra è fatta di argilla e sassi. Ora capisco l’ironia di Hu, che chiamava “montagna” la media collina, innamorato della terra grassa e fertile della sua piana, a 10 minuti da qui: “in montagna non cresce niente”, in Toscana come nella campagna di Wencheng della sua infanzia. E mentre i semi dei miei progetti (sembrano lontanissimi) germogliano in semenzai improvvisati (2 acquari rotti), scopro una cisternetta sotterranea: contiene il “bottino” dei contadini che abitarono qui, letame stagionato per decenni, almeno a partire dai primi anni 60 quando anche loro fuggirono verso la pianura in cerca di benessere. Passo le giornate sottoterra a scavare quella miniera di concime quasi mineralizzato, una vera manna, cerco di polverizzarlo e di liquefarlo, mentre i germogli si trasformano in piantine e le notti diventano tiepide. Poi la curva comincia a calare, lentamente, e le piante si radicano in piena terra. Quando la mobilità è ripristinata io resto fermo, la primavera diventa estate e l’orto entra nel pieno della sua produzione. Grazie al letame di mucche vissute 60 anni fa, le “pugua” nate dai semi di Hu penzolano enormi, ovunque, mentre i loro tralci si avviticchiano ai “tenerumi” lussureggianti delle cucuzze siciliane. Vedo la movida estiva imperversare sui social, un’estate euforica, turismo interno, mi dicono che in Maremma è tutto pieno come negli anni 80. Ma io non mi muovo, non piove da mesi e devo annaffiare anche 2 volte al giorno, per fortuna la sorgente regge e l’orto produce a ciclo continuo. Anche la campagna si riempie di allegria, specialmente la sera, dalle coloniche affittate ai vacanzieri si spandono risate e musica fino a notte fonda.
Una delle poche infrazioni a questo regime di simbiosi con le piante è a fine luglio per le “digressioni paravinivole”, a Villa Romana, un tentativo di trovare un mio punto di galleggiamento nel vino, che della Toscana agricola di oggi è la vera linfa, e in cui sono immerso dalla nascita, e di posizionarmi nel groviglio delle sue politiche, dalle implicazioni etiche dell’agricoltura sostenibile a ritroso fino alle cattedre ambulanti di agricoltura che predicarono per prime il progresso e la modernità nelle campagne, delegittimando conoscenze secolari, esautorando le pratiche dei contadini a partire dai modi di coltivazione della vite fino alle tecniche di vinificazione, per creare un prodotto stabile, conservabile, esportabile, standardizzato, prestigioso.
Forse quelle digressioni hanno scavano dentro di me nuove possibilità. E mentre il contagio sale nuovamente, stavolta non come un’onda ma come una marea, il mosto ribolle in quella che fu la stalla delle mucche e negli anni 90 lo studio di un pittore olandese, dopo settimane di vendemmia selvaggia tra vigne abbandonate, abitate da lepri e fagiani, mai potate e mai trattate da anni. E in questo tempo di mobilità ridotta mi dedico a esperimenti di micro-vinificazione a partire da grappoli enologicamente inutilizzabili, perché spargoli, troppo maturi o ancora acerbi, generati da quelle viti fuoriuscite dal cerchio millenario della domesticazione, per “maritarsi” alla boscaglia.

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