Felicità nello specchio (posteriore)
Sono passate tre mesi da quando abbiamo concluso l’estate di Scuola Popolare con una giornata di contributi e discussioni sullo spazio urbano che ancora non esiste.
Tra il 22 giugno e il 22 settembre, diverse centinaia di persone hanno partecipato agli oltre 50 appuntamenti nel giardino di Villa Romana. Dopo i durissimi mesi di isolamento da lockdown, i primi laboratori di Scuola Popolare sono iniziati con un sentimento di enorme gioia: finalmente la vicinanza, lo scambio, la fortuna di condividere di nuovo un terreno comune. Anche con una fiducia più o meno grande: le cose non possono andare avanti così. How can you dare …
Ora tutto è di nuovo cambiato, ci nascondiamo, cerchiamo la distanza: le cifre dei contagi sono fuori controllo, i nostri diritti fondamentali sono di nuovo limitati, le scuole, i teatri, i cinema, le sale d’esposizione chiusi. Ci troviamo di fronte ad un lungo inverno, che ci richiederà molta autoesortazione. Abbiamo chiesto ad alcuni dei tanti artisti e attivisti di Scuola Popolare di raccontare le loro esperienze e riflessioni. Ne condividiamo i testi, insieme ad alcune fotografie che speriamo possano rallegrare la grigia atmosfera di dicembre.
Per Villa Romana, la Scuola Popolare è stata un’esperienza immensamente arricchente: tante conversazioni, incontri, materiali e processi, discussioni politiche, affinità personali, tante occasioni per articolare sensibilità individuali e sociali in uno scambio diretto. Mille grazie a tutti i partecipanti!
Non vediamo l’ora che arrivi la Scuola Popolare 2021!
Il team di Villa Romana
Justin Randolph Thompson (artista, co-founder Black History Month Florence)
“Fischi per Fiaschi”
Justin Randolph Thompson (artista, co-founder Black History Month Florence)
“Fischi per Fiaschi”
„Prendere fischi per fiaschi“ significa confondere una cosa per un’altra, un fatto ricorrente quando si ascolta avendo determinate aspettative in mente o ancor di più quando non si ascolta affatto. Oggi con i nostri progetti e aspirazioni cerchiamo di passare dal piano meramente teorico della dialettica a quello di una pratica che favorisca la capacità di resistenza nella lotta contro l’ingiustizia razziale e la disparità storicamente consolidate. La nostra individuale relazione con la precarietà acuisce maggiormente l’annosa richiesta di ricalibrare i valori e di riconsiderare il ruolo dei nostri sistemi educativi nella difesa dell’equità. Riconoscere la carenza dei principi sociali fondamentali alimenta forme alternative di pedagogia, ma la consapevolezza da sola purtroppo non basta. Non abbiamo bisogno di un nuovo orientamento rispetto alla „Blackness“ e al suo rapporto con “l’italianità”, ma piuttosto di un disorientamento e di una rottura di quei valori che inquadrano le nostre interazioni, i canoni storici dell’arte. Dobbiamo valorizzare le nostre posizioni all’interno dell’attivismo antirazzista nella sua forma più basilare, ovvero promuovendo la responsabilità.
Qui proponiamo una forma di scrittura collettiva con la partecipazione dei mediatori che sono intervenuti al progetto “Fischi per Fiaschi” di BHMF, nell’ambito della Scuola Popolare di Villa Romana, presentando delle piccole storie che ci hanno coinvolto reciprocamente nell’ascolto, dando vita alla nostra capacità di raccontare, elaborare l’espressione creativa, o al bisogno di rappresentanza politica e al significato di cura. La serie di workshop è accompagnata dalla rielaborazione di una tradizione toscana risalente al milletrecento, vale a dire l’impagliatura dei fiaschi. Una tradizione che utilizza il lavoro delle donne come scambio sociale, laddove il tentativo di porre rimedio alla fragilità delle bottiglie diventa una metafora per mettere in atto la cura sociale. Utilizzando alcuni verbi riflessivi come punti di partenza per le visioni di cinque voci afro discendenti del panorama socio-politico italiano, intendiamo offrire un’introspezione articolata su quanto è necessario fare e sulle strategie per arrivarci con o senza passaporto.
Conoscersi (Conoscere sé stessi | conoscersi l’un con l’altro | conoscersi reciprocamente)
Angelica Pesarini – sociologa, docente di Black Italia presso la NYU, Firenze
Il mio intervento è stato a illustrare alcuni approcci metodologici in cui l’intersezionalità e la riflessività giocano un ruolo cruciale. Particolare attenzione è stata data all’incontro tra ricercatore e partecipanti durante il processo di intervista, una situazione in cui si possono generare rapporti di potere sbilanciati. Se da un lato il partecipante decide di raccontare una sua storia personale su una o più esperienze di vita, dall’altro l’ascoltatore ha il potere di produrre conoscenza organizzando i significati delle esperienze altrui in modo tutt’altro che neutrale. In questo processo è essenziale riconoscere le proprie emozioni e riflettere criticamente sulla propria posizione di ascolto per evitare di imporsi sulle narrazioni altrui.
Raccontarsi (Parlare di sè stessi | parlare di noi)
Dudu Kuoaté – griot, musicista, mediatore culturale, Bergamo
Parlare di noi stessi può significare dare agli altri qualche informazione sulla nostra vita, su chi siamo, ma per molti significa rivelare sé stessi e offrire una parte della propria storia, delle proprie emozioni e sentimenti. Raccontando agli altri di noi, parliamo a noi stessi. Ognuno è teatro delle regole e dei valori della propria tradizione orale e rappresenta per l’ambiente sociale ciò che l’ossigeno è per l’ambiente biologico. Lo storytelling mette in luce le nostre azioni attraverso l’uso del linguaggio verbale e non verbale e la rappresentazione teatrale del nostro patrimonio materiale e immateriale. La rievocazione di antiche tradizioni come ad esempio l’arte di intrecciare i vimini (i fiaschi), in un quadro ricco di suggestioni, generoso e condiviso facilita il risveglio di memorie individuali e collettive.
Esprimersi (Esprimere sé stessi | esprimere noi stessi)
Adama Sanneh – co-fondatore e CEO della Fondazione Moleskine, Milano
Maria Sebregondi, presidente della Fondazione Moleskine, scrittrice e poetessa, ha spiegato che la parola creatività viene dal latino “creare”. Una teoria etimologica avanza l’ipotesi che la parola derivi dall’antica radice sanscrita kar, da cui la parola greca keiros (mano). La creatività nella sua connessione con uno strumento complesso come la mano ha uno stretto rapporto con il “fare”, e di conseguenza con l’avvio di un processo trasformativo tangibile. Significa mettersi al lavoro. Il lavoro richiede strumenti, know-how e conoscenza. La creatività, rappresentata dal “fare” è alla portata di tutti ed è un valore collettivo. I vincoli sono ingredienti altrettanto importanti che ci spingono ad attingere a risorse inaspettate, riarticolandole in nuove dinamiche e linguaggi. In questo senso il lockdown diventa un nuovo limite che può essere nterpretato come un’opportunità di auto-esplorazione e creatività.
Rappresentarsi (rappresentare sé stessi | rappresentarsi reciprocamente)
Antonella Bundu – attivista, consigliera comunale, Firenze
“Fischi per Fiaschi” si è rivelato uno scambio reciproco in cui ho potuto avviare una discussione, offrendo spunti di riflessione su cosa sia la rappresentanza nell’attivismo e in politica, soprattutto a livello locale, di una cosiddetta minoranza, come donna e come donna nera (aggiungerei anche come donna di sinistra). Dai partecipanti ho ricevuto in cambio idee che porteranno senz’altro a nuove collaborazioni e che si tradurranno in azioni concrete. Questo scambio, avvenuto nell’arco di una mattinata, aveva un senso tutto suo: uno spazio aperto nella natura, delle sedie disposte in cerchio a simboleggiare il desiderio reciproco di imparare a intrecciare pensieri, opinioni come le mani imparano a tessere la paglia nera intorno alle bottiglie.
Curarsi (la cura di sé | prendersi cura di noi stessi)
Patrick Joel Tatcheda Yonkeu – artista, attivista, direttore di Black History Month Bologna
Se oggi con il termine “cura” ci riferiamo soltanto alla possibilità di accesso alle cure mediche, lo stesso non si può dire delle società che ci hanno preceduto. Al riguardo è utile riflettere sulla parola Ubuntu (io sono perché noi siamo). Lo scopo del mio intervento è di evidenziare l’aspetto psicologico nei processi di guarigione tramandati nel tempo dalle culture che ci hanno preceduto attraverso un percorso rituale. In natura le conoscenze deputate alla cura sono biologiche e non soggette alle nostre gerarchie sociali. Alla luce di questa crisi sanitaria di portata planetaria, siamo sollecitati a cambiare il concetto di cura globale nella direzione di una cura ambientale nel rispetto della natura.
(Articolo apparso su The Florentine, ottobre 2020)
Dott. Nicola Mariotti (psicologo / psicoterapeuta / psicanalista)
Una smisurata alterità
Dott. Nicola Mariotti (psicologo / psicoterapeuta / psicanalista)
Una smisurata alterità
Chi ti ha insegnato a prenderti cura della vita?
(Penso la vita come un dono alla vigilia del pensiero, un dono che non è dono di qualcosa né di qualcuno).
La domanda che ci è stata posta, viaggia dritto al cuore.
Al mio innanzitutto; come uomo e come psicanalista.
Tanto che potrei dire che la psicanalisi non è per me solo una professione ma la maniera di prendersi cura della questione del “prendersi cura” di se, del prossimo e della vita.
La cura, nelle parole del filosofo Walter Benjamin, è attenzione, e l’attenzione è la preghiera spontanea dell’anima affinché le cose siano benevolenti e mostrino il loro lato notturno, si concedano al “canto”, per poter dire ciò che di esse, alle cose stesse, rimane sconosciuto: la loro precarietà, la fragilità, il loro passaggio su questa terra.
Perché la vita passa senza dare, senza darsi, alcuna parola.
E proprio noi, i mortali, i più precari, i passanti, siamo incaricati di fermarla, di rivolgerle parola.
Noi siamo avviati a questionare le cose, per sapere da dove vengono e dove vanno.
Per farlo dobbiamo rimanere inerenti, dobbiamo rimanere fedeli, a ciò che delle cose, come dell’altro in generale, si intima in noi.
E’ il mistero dell’incontro.
Nell’ascolto analitico cerchiamo continuamente di farci strada verso ciò che rimane di un incontro, di udire qualcosa della pulsazione di questo che chiamiamo inconscio, vero luogo dell’annodamento all’altro.
E’ solo entro lo spazio dell’ascolto, che è un colloquio, qualcosa dell’altro si può dare, nel momento in cui spazziamo il campo dai nostri fantasmi e dal rumore di fondo della nostra sopravvivenza nevrotica (la dannata voglia di dominare gli eventi) lasciando che si costituisca colui o colei al quale ci dedichiamo.
L’altro viene ad essere allora.
Ogni volta, la prima volta. La sua presenza è una smisurata alterità con cui fare i conti.
E’ possibile?
Che ne è della nostra presenza di fronte a quest’altra presenza così radicalmente estranea?
O noi o lui?
O la sua presenza che non lascia parola innocente perché ogni parola è un tradimento, perché ogni nostra parola non è la sua, o la nostra presenza, la nostra testimonianza di questo incontro, nella speranza che gli si rimanga il più possibile fedele, che non si smarrisca quanto meno una eco di questo altro, di colui che ha parlato per primo.
La vita passa senza dare parola, senza darsi parola e accade come eredità impossibile al nostro pensiero, se non fosse per una certa necessità, con cui va a coincidere, una legge al fondo del nostro cuore, che la intima, stavolta nel senso che la presenta come un ordine perentorio, a cui siamo chiamati a rispondere, ciascuno a suo modo.
Questa chiamata è una chiamata vuota, una chiamata di nulla, priva di contenuti: un soffio.
(La parola poetica è un alitare nel vento, diceva Rilke).
Noi la avvertiamo come necessità, come un esigenza che culla l’essere e lo fonda come possibilità, come avvenire.
Alla sua chiamata potremmo rispondere “Eccomi!”, nell’ immenso sacrificio di tutte le parole, i discorsi, i gesti, potremmo testimoniare integralmente la vita in una spaventosa riduzione al mutismo, per tentare di dirne il silenzio.
Si può sacrificare l’intera esistenza, da cima a fondo, ma cosa resterebbe?
Cosa avrebbe da dire la cenere, dopo questo immenso olocausto di vita?
Non una parola le potrebbe cavare eppure essa è del fuoco più di ogni altra cosa.
Lacan – psicanalista francese – diceva che l’unico atto riuscito è il suicidio.
Ecco allora che ci muoviamo in un spazio-tra-le-due-morti, (per alcuni proprio questo sarebbe l’essenza della tragedia); lavitalamorte (scriveva il filosofo Derrida) come silenzio di fondo che chiama a quella fedeltà che si può dare solo nella fusione, nell’abbraccio mortifero con la vita con cui ci si dovrebbe intendere senza aprire bocca – questo sogniamo nelle nostri notte più ardite – e l’altra morte, ribaltata nella parola. Morte commentata, attesa dall’avvenire del discorso e progettata come sapere sulla morte; vita presa ed esaurita nella lingua, fine delle vicissitudini del domandare e del desiderare.
Come ci si prende cura della vita diventa una domanda che assume i toni di un invito a riflettere sui modi di poter essere fedeli alla vita pur facendone parola.
(Una parola-tenda, scriveva il poeta Paul Celan, che offra ospitalità e possa resistere allo spirare di venti contrari)
Come si resiste in questo spazio-tra-le-due-morti?
La parola “resistenza” assume qui il suo aspetto più nobile di un mandato etico, ben lontana dal significato che assume nella teoria psicanalitica classica.
Essa va nella direzione di un assunzione di responsabilità rispetto a questa chiamata e ci conduce alle soglie di quella necessità che ci penetra nel profondo e che coincide con la posta massima che l’inconscio mette in campo: desiderare ciò che non fu desiderato.
Qui si gioca l’ambivalenza del concetto di resistenza che può andare a coincidere con un movimento di rifiuto.
Ma se rifiutiamo ciò che fece a meno di noi, in noi ed è adesso per noi, se sia sul piano individuale che collettivo, ci crediamo e ci muoviamo come fossimo padroni di noi stessi (come si raccomanda in maniera più o meno velata in molte pratiche del benessere), tale necessità si manifesterà in noi in modo distruttivo e perverso nella forma di quello che Freud chiamava ritorno del rimosso – di cui i nostri sintomi sono la traccia – cioè il ritorno dell’impossibile come tale.
Freud sosteneva che siamo responsabili anche dei nostri sogni, di quegli aspetti cioè della vita che si testimoniano nella nostra intimità, lacerandola, portandovi una lingua estranea, fatta di immagini e di brandelli di discorso. Nel luogo di un estrema solitudine, di un intimo restringimento, proprio dove il nostro dominio appare incorrotto e mondato dalla presenza dell’altro, si manifesta qualcosa di misterioso e di radicalmente estraneo.
Freud ha avuto il merito di provare a pensare il campo del sogno come il luogo in cui siamo di casa e nel quale si tratta di tornare non come si torna al passato, ad un passato che una volta è stato presente, bensì nei termini di un avvenire, di un venire alla luce in questo luogo d’essere a cui siamo da sempre consegnati e a cui, anche il sogno, appartiene.
“Die Traumdeutung” è il suo saggio del 1899. La traduzione del titolo originale “L’interpretazione dei sogni” non è esatta e potremmo preferirle un’altra: “La significazione della ferita”.
Da Traum, sogno ma anche ferita e Deutung, significazione.
La ferita è questo campo aperto fra le due morti, tra il tacere della vita e la morte della lingua, che tenta di essere assorbita dal luogo da cui scaturisce, per cercare la testimonianza integrale, senza alcun resto, tenendosi tutt’uno con ciò che l’afferra.
Afferrata, avvinghiata, la vita lascia una traccia.
E‘ una traccia che avvia alla scrittura ma che non si dona mai integralmente, non passa mai tutta aldilà: la nostra lingua materna. Il segno dell’incontro con ciò che ci rimane invivibile.
Forse, per penetrare un po‘ il mistero, è una scrittura che si scrive nel luogo di un rapporto smisurato con la vita e al contempo di una solitudine altrettanto smisurata che non conosce testimoni: una scrittura che rimane illeggibile.
E‘ la solitudine dell’infante che s’impasta con l’aria che lo invade e più avanti del bambino, parlato, desiderato, avvolto dai discorsi familiari come un scialletto che continuerò a tessere per tutta la vita, per trovavi un po’ di tepore.
Molti saranno gli enigmi per un essere di parola.
Ma è anche la solitudine di certi passaggi in analisi, del poeta e dell’artista: la cui opera, se si mantiene fedele a questo iniziale segreto, è lascito, testimonianza di una pura singolarità che si erge, che sta al cospetto: nella memoria delle proprie date e nell’azzardo cerca un testimone per quella solitudine; un testimone per quel testimone muto che si mantiene tutto con l’accaduto.
La verità è sempre singolare.
Afferrata, avvinghiata, la vita lascia una traccia.
Noi non facciamo che lavorare questa traccia.
Nel gesto artistico, nella mano che cresce salda al vaso, come dice un poeta, non vi può essere altro testimone che la mano stessa in un gesto che arresta nella solitudine radicale e che lascia cadere la terracotta temprata da quell’incontro.
In questo senso il gesto artistico, come la parola sofferta e strappata al silenzio in analisi, ripetono il destino di quell’incontro fra due “tu” smisurati, da cui qualcosa si è staccato ed è rotolato al fondo dell’essere.
Un qualcosa che è solo ed in cammino.
Rimanergli inerente è prendersi cura della vita per guadagnare direzione e destino.
Nicola Mariotti
Eduardo Landim (attore, Open Program of the Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards)
Cittadinanza attiva e i limiti dell’innocenza
Eduardo Landim (attore, Open Program of the Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards)
Cittadinanza attiva e i limiti dell’innocenza
Mi chiamo Eduardo Landim, ho 32 anni, sono brasiliano e sono uno degli attori dell’Open program del Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards.
Innanzitutto, vorrei sottolineare l’importanza dell’iniziativa di Villa Romana, la proposta di questa breve ma rivoluzionaria avventura della Scuola Popolare. È stata per noi una bella sorpresa e una sfida: siamo un gruppo teatrale, il nostro mestiere prevede, sì, l’incontro con il pubblico ma per lo più nel contesto di una struttura performativa. Per noi, elementi quali il canto, la danza e la recitazione sono sempre stati la base principale dell’incontro con l’altro. Tuttavia, la proposta di Villa Romana ci è sembrata sensata, sia in relazione all’impossibilità di incontrare il pubblico nei modi a noi più congeniali, a causa dell’emergenza sanitaria, sia in relazione al nostro percorso artistico e alla riflessione sulla nostra funzione nella società. In questo contesto, eravamo ancora artisti, ma denudati degli ornamenti appartenenti all’universo dello spettacolo. Eravamo un gruppo di persone libere di improvvisare, noi quanto il “pubblico”, senza una struttura teatrale, seppure all’interno di un contesto in parte strutturato, in modo tale da permettere il dialogo e offrire spunti per la riflessione.
L’evento da noi proposto per la Scuola Popolare si intitolava „Cittadinanza attiva e i limiti dell’innocenza: una conversazione su responsabilità, creatività e la costruzione di un mondo nuovo“. Si è svolto in due giornate con una settimana di intervallo fra di loro. Oltre all’opportunità di condividere esperienze e pensieri legati a tematiche toccate dal gruppo nel corso dei suoi quasi quindici anni di vita, abbiamo potuto ascoltare punti di vista diversi e riflettere insieme alle persone presenti in un modo che crediamo significativo e che, ne siamo certi, sarà un arricchimento per il nostro processo creativo. Processo che prosegue, nonostante le difficoltà del particolare momento che stiamo vivendo.
Lo scambio di riflessioni a proposito di argomenti delicati e importanti, quali responsabilità e cittadinanza attiva, razzismo interpersonale e razzismo sistemico, richiedeva un’attenzione particolare, non solo nel modo di porre determinate questioni, ma anche nella maniera di ascoltare ciò che veniva detto. L’efficacia della nostra azione, del nostro essere credibili su questo “palco” per noi così inusuale, risiedeva nella possibilità che l’esercizio di una cittadinanza attiva si manifestasse nell’atto stesso di discutere il significato e le implicazioni dell’essere cittadini attivi. Insomma, non si cantava, non si ballava, non si recitava, ma è stata una scoperta sorprendente che l’assenza degli elementi performativi propri del nostro mestiere non precludesse di per sé la possibilità che l’incontro con il pubblico avesse comunque una qualità “teatrale”, basata, appunto, su questa necessità di un certo modo di essere presenti, di parlare, di ascoltare.
Daria Filardo (storica dell’arte) e Chiara Camoni (artista)
Il patriarcato, l’autobiografia e il dialogo
Daria Filardo (storica dell’arte) e Chiara Camoni (artista)
Il patriarcato, l’autobiografia e il dialogo
9 Settembre 2020
Questi due testi sono stati scritti ognuno senza sapere dell’altro, e, per profonda risonanza, si integrano perfettamente.
Il lenzuolo bianco copriva alla rinfusa i corpi che si toccavano in alcuni punti; il libro e gli occhiali erano sul bordo sinistro del letto. Avevamo già preso il caffè, le tazzine erano ancora sul vassoio, dalla parte opposta del libro.
Non ricordo esattamente per quale associazione del pensiero ma presi il libro che avevo iniziato la sera e lessi il primo capitolo ad alta voce. La ‘critica rivoluzionaria di massa’ che avveniva durante la Rivoluzione Culturale di Mao era descritta attraverso la voce di un ragazzo, raccontava la storia di suo padre (avevo comprato questo libro leggendo la quarta di copertina che ne parlava come di un giallo ambientato a Shanghai). Ascoltò, poi parlò dell’ideologia, del potere che decide, di come Gramsci fosse dovuto morire (forse) allo scopo di impedire la formazione di un pensiero indipendente, di come Togliatti guardasse all’unione sovietica del tempo, di come Luciano Canfora avesse provato a replicare e proporre e di come Natta gli avesse detto ‘compagno Canfora, la storia è complicata’.
Non perdevo una parola, ma pensai pure a tutt’altro: al professore di storia e filosofia che parlava dei romanzi che raccontano le storie e che leggendoli capivi la Storia. Il contrario dei fatti, di un soggetto astratto che dice ciò che succede: storie costruite che affondano nella verità.
La ‘critica rivoluzionaria di massa’ mi faceva sorridere, forse perché non riuscivo ad essere una critica? (e quella finzione ideologica collettiva svelava l’inganno?). Il mio modo di fare storia dell’arte era diventato scrivere la mia storia, raccontare ciò che mi succede attraverso espedienti narrativi (veri): mettevo insieme autobiografia e dialogo, un ossimoro solo apparente.
Non era la prima volta che mi capitava di pensare che avrei voluto dire al professore di filosofia che avevo capito, ma lui non c’era più ed era una delle poche morti che mi dispiacevano davvero perché avrei voluto parlargli ancora. Per molti anni mi aveva messo a disagio, da quando aveva abbassato la puntina del giradischi su ‘pazza idea’ di Patti Pravo. Lo squilibrio di potere era dalla sua parte, io fuggii timidamente e senza dire una parola. Ma ‘la storia è complicata’, appunto. Io avevo fatto tesoro della lezione, ero diventa un soggetto che raccontava non solo di me (non ero la sola, anzi eravamo in tante).
Chiara mi spinse ancora un po’ più in là: ‘avresti dovuto, alla fine del tuo intervento, leggere anche le tue cose, insistere ancora di più su questo carattere autobiografico. Quando hai parlato del lavoro di Stefania e di Helen si sentiva che c’era un trasporto diverso. Dovevi parlare di più delle artiste con cui condividi delle cose, perché è proprio lì che avviene quella piccola magia che conosciamo.’ In effetti non avevo letto i miei scritti. Avevo letto quelli degli altri, avevo parlato di come la storia personale, i gesti quotidiani, anti-eroici, le chiacchiere mentre si fa altro, legano piccole comunità di donne (e uomini) che si raccontano e si ritrovano. Qualcosa di me ho raccontato però, di quando ho scovato in una bancarella di libri usati a Palermo, un libro che si chiama ‘In principio era Marx’, nella cui introduzione l’autrice scrive a un’altra donna. Un intervento completamente autobiografico che rilegge una storia importante in un modo diverso. Io pure cercavo di fare così: scrivevo dei fatti miei e delle persone che incontravo, in un miscuglio completo di arte e vita.
Chiara aveva proposto di fare piccoli gesti, come raccogliere foglie e fiori nel giardino della villa (qualche anno prima avevamo costruito dei fischietti di terracotta a Palermo). Insieme ad un piccolo gruppo di persone abbiamo composto i fiori e le foglie su delle lunghe sete stese su dei tavoli e alte come un corpo umano; Chiara ci raccontava delle creature dei giardini, dei fiori e di come si sarebbero potuti imprimere. Una volta sistemati i fiori le abbiamo spruzzate, arrotolate e lasciate li per la notte. Il giorno dopo abbiamo letto, sfogliato libri che avevamo portato, io ho parlato un po’ e poi abbiamo srotolato le sete. Erano ancora bagnate quando le abbiamo appese con delle pinze su un filo di metallo che avevamo legato fra due alberi. Come bucato al sole il colore dei corpi vegetali svolazzava davanti ai nostri occhi. In un cerchio sparso ci sedemmo, sull’erba davanti a quei protettori del giardino che diventavano sempre più verdi, gialli, violetti. C’erano anche dei momenti di silenzio, come a fare spazio a queste presenze che si univano al gruppo. ‘Ha la faccia tonda’, ‘ ha una corona in testa’, ‘ha le gambe piccole e storte’, ‘ha la gonna’, ‘la sua bocca è enorme’, ‘a me la bocca sembrava quell’altra più sopra’, ‘noo quello è il naso!’. (DF)
Alla fine, ci siamo seduti tutti sul prato.
Nessuno aveva voglia di andarsene, di chiudere.
Abbiamo aggiunto ancora qualche poesia, qualche brandello di lettura, per prolungare ancora.
Siamo rimasti lì a guardare quegli spiritelli che ci svolazzavano intorno, con la luce del giorno che finiva.
Forse aspettavamo qualche loro parola.
Oppure semplicemente ci godevamo quel tempo guadagnato, quel momento di verità silenziosa. (CC)
Alessandra Tempesti (curatrice, Lottozero)
Soft architecture
Alessandra Tempesti (curatrice, Lottozero)
Soft architecture
Scampoli di tessuto, distesi sull’erba. Sono tessuti per arredamento, pesanti e resistenti.
Giallo primario, rosso carminio, verde petrolio. A contrasto con l’altro verde dell’erba del giardino, più chiaro e appena bruciato dal sole estivo. Scelgo di partire dall’immagine, dai colori impressi nella memoria visiva in un tardo pomeriggio di fine luglio. Perché per qualche tempo siamo stati più sensibili a ciò che avesse una consistenza, una trama, una matericità, e non fosse soltanto immateriale e digitale.
Su quelle stoffe Marco Ferrari e Cristina Gallizioli hanno poggiato un modellino in legno che riproduceva in scala la struttura architettonica dell’edificio di Lottozero a Prato: un campo in miniatura di azione e sperimentazione per le loro ricerche sulla possibilità di immaginare una soft architecture, fatta di tessuti.
Quando i due architetti hanno iniziato ad interagire con il modello, alcune persone si sono alzate, altre un po’ avvicinate, per vedere meglio la trasformazione dell’edificio nelle loro diverse ipotesi di partizione interna degli spazi attraverso l’utilizzo del tessuto: stanze deformabili, stanze “appese” che si aprono come tende, solai a rete che permettono il passaggio della luce, pareti mobili e arrotolabili all’occorrenza.
A cielo aperto, nel giardino di Villa Romana, si è discusso di idee e visioni alternative al pensiero architettonico tradizionale. Si è aperto un nuovo immaginario, in cui è la persona a condizionare la logica strutturale dell’edificio, e non viceversa. Un nuovo concetto dell’abitare domestico.
La Scuola Popolare di Villa Romana ha intercettato questo e tanti altri esempi di libertà e creatività di pensiero. E lo ha fatto tempestivamente, con coraggio, dedizione e cura.
Pina Piccolo (scrittrice)
L’altro volto della poesia
Pina Piccolo (scrittrice)
L’altro volto della poesia
Cercando di evitare l’errore di codice che il virus vorrebbe trascrivere nei corpi che riesce a penetrare ma non per questo rinunciando ai piaceri e al potenziale del ragionare in comunione con gli altri, a volte s’incappa in soluzioni felici. Solo così potrei definire l’esperimento di Scuola Popolare che quest’estate si è tenuto nello stupendo giardino di Villa Romana in quattro fasi denominate Imparare e Disimparare, Sé Narrabili, Terra Feconda e Fuga.
In rappresentanza delle riviste digitali La Macchina Sognante e The Dreaming Machine io Pina Piccolo, insieme a Federico Picerni e Sana Darghmouni abbiamo partecipato alla prima fase con due appuntamenti di poesia transnazionale a inizio luglio, “L’altro volto della poesia cinese oggi” il 2 luglio e “Sulle ali della poesia dalla Palestina a Kolkata”, il 7 luglio.
Già il primo impatto con il giardino quasi tre anni fa aveva destato grande meraviglia perché, prevenuta dalla mia antipatia per i giardini rinascimentali che abbondano in città, non mi aspettavo una tale articolazione di spazi, il tutto senza soluzione di continuità. Invece attorno alla Villa la vista e gli altri sensi percepiscono un gradevole susseguirsi di angoli un po’ ‘selvaggi’ in cui le piante la fanno da padrone e radure che rivelano l’intervento di contadini, giardinieri e ortolani, il padiglione utilizzato per mostre e incontri, il gazebo, lo sdraio/letto finestrato per osservare le stelle, il bosco di bambù che attira ma crea apprensione allo stesso tempo, il più addomesticato orto con i pomodori e le melanzane, i peperoni e le piante aromatiche, la piccola piantagione di susini che hanno visto tempi migliori, gli ulivi giovani che si riappropriano della terra con le loro radici un po’ storte e forme bizzarre, i cipressi sul limitare a mo’ di barriera. Un misto di piante autoctone e di piante dalle provenienze lontane. Tutta questa diversità di forme, funzioni, espressività, stadi cronologici di sviluppo è solo la punta dell’iceberg di tutto quel lavorio di radici, funghi, intrecci, scambi di nutrienti e di informazioni – e chissà forse anche immaginazioni ed intelligenze eterogenee- che si dipana nel sottosuolo e di cui sappiamo molto poco. In un certo senso, da un lato il mistero dovuto alla nostra ignoranza degli ecosistemi ci ricorda dei nostri limiti nel campo dello scibile, ci rendiamo conto della nostra non conoscenza nel giardino, ma dall’altro la bellezza di questo locus amenus ci incalza ad esplorare quasi per analogia la bellezza del più misterioso dei generi letterari, la poesia, e nel nostro caso quella di un continente come l’Asia sul quale storicamente abbiamo proiettato abbondanti dosi di esotismo.
Grazie alle profonde conoscenze di Federico Picerni che da anni vi dedica approfondite ricerche per il suo dottorato, abbiamo ascoltato anche attraverso filmati le voci di lavoratori migranti, spesso ex contadini, alcuni di stanza a Picun, un sobborgo alla periferia di Beijing che si ritrovano per scrivere poesia e per perfezionare la propria formazione letteraria con l’aiuto di docenti universitari volontari. Tra il pubblico vi erano conoscitori della tradizione contadina toscana di poesia estemporanea in ottava rima che hanno messo in evidenza i punti di contatto tra queste esperienze solo in apparenza lontane. L’altro nucleo che abbiamo esaminato, quello dei poeti della Scuola Enciclopedica cinese, che ha attirato la nostra attenzione con il suo ambizioso programma di fondere umanesimo e scienze rinnovando il linguaggio poetico ci ha riservato una piacevole sorpresa in un secondo momento pubblicando sulla loro piattaforma in Cina immagini della serata e un resoconto. Questo desiderio delle radici di estendersi ed intrecciarsi ha avuto ancora una terza fase che pur avendo origine nel giardino di Villa Romana si è manifestata ben lontana: sono nati degli scambi tra i poeti cinesi e quelli indiani presentati nel secondo appuntamento e che prima non si conoscevano. Utilizzando l’inglese come lingua ponte hanno avviato un progetto di traduzione reciproco delle poesie presentate quella sera, mentre sul confine sino-indiano i soldati proseguivano le mortali scaramucce che ormai si ripetono da decenni.
E notizia della Scuola Popolare di Villa Romana è arrivata in un articolo del quotidiano principale di Kolkata grazie agli sforzi di Animikh Patra e Sanghamitra Halder, due dei poeti presentati il 7 luglio e che abbiamo ascoltato in video leggere le proprie poesie in Bangla con sottotitoli in italiano. Sullo schermo le loro teste campeggiavano accanto alle piante di pomodoro, sotto la fioca luce delle candele. La tecnologia, la poesia e la natura si muovono in maniere misteriose ma è come se per magia fossero artefici della chiusura di un circolo virtuoso tanto necessario in questi tempi di isolamento, scontro e menzogne. Chissà forse la poesia o le arti in generale ci salveranno – Grazie Villa Romana per offrire questi spazi.
Pietro Gaglianò (critico d‘arte)
La sintassi della libertà. Arte, pedagogia, anarchia
Pietro Gaglianò (critico d‘arte)
La sintassi della libertà. Arte, pedagogia, anarchia
Nell’immaginario di tutte le narrazioni di pedagogia radicale, libertaria, anarchica, anche in quelle legate alla realtà di contesti sociali complessi, di aree urbane marginali, di contrasti drammatici, c’è sempre l’evocazione di un prato, con un gruppo di persone radunate in cerchio sotto l’ombra di un albero. Dietro questa visualizzazione dell’incontro non si nasconde un pensiero lirico, idealizzato (dobbiamo ricordare che l’orizzonte di azione della pedagogia, così come dell’arte, non è antitetico al reale ma proprio all’ideale). Questa immagine del circolo di persone è la rappresentazione, pura e semplice, del patto pedagogico così come viene proposto nella teoria e nella pratica delle principali correnti di rinnovamento dell’edificio educativo negli ultimi duecento anni. Nella geometria del cerchio, originaria in tutte le compagini umane e nelle forme dei primi insediamenti (le prime abitazioni, i templi di pietra, e anche il primo teatro pare fosse un cerchio di persone attorno a un albero), si dichiara implicitamente la condizione paritaria di tutti i presenti, con uguale facoltà di parola, di intervento e di obiezione: una contestazione del principio di autorità in favore di un approccio di condivisione orizzontale, fondato sull’adesione volontaria, sulla responsabilità individuale, sull’autogoverno. Similmente l’ambientazione campestre (un parco, un prato aperto) indica un luogo del possibile, uno spazio alternativo o semplicemente non condizionato dalle architetture del potere di tutta la tradizione europea.
In questo spazio, che è dunque reale e non ideale, prende forma l’apprendimento, che non sempre ha bisogno dell’insegnamento (inteso come trasmissione verticale) ma che senza tale dimensione di reciprocità è solo ammaestramento. L’apprendimento è sempre un atto volontario così come la partecipazione alle occasioni in cui le persone scelgono di mettere in gioco le proprie storie, esperienze e competenze per una creazione di senso che sia autenticamente condivisa.
Il programma di “Scuola Popolare”, che ha incluso anche la conversazione con Ilaria Gadenz sul mio libro, ha dato vita molte volte a questo modello. Poter parlare de La sintassi della libertà. Arte, pedagogia, anarchia (Gli Ori, 2020) nel parco di Villa Romana, presso un grande albero, è stato come creare una speciale continuità tra le storie e le teorie raccolte nel libro e il modo per condividerle.
La cornice perfetta, reale e non ideale.
Cristiano Barducci & Beatrice Caruso
La grande lezione dei piccoli animali
Cristiano Barducci & Beatrice Caruso
La grande lezione dei piccoli animali
Alla grande aloe che troneggia nel giardino di Villa Romana non sarà di certo sfuggito il nostro imbarazzo iniziale. Per la prima volta eravamo ospiti e non spettatori.
Insieme a noi, davanti alla “platea”, piccoli libri ingialliti dal tempo e dal contenuto prezioso: storie d’insetti scritte da Marcel Roland, naturalista francese di inizio Novecento.
Non possiamo certo definirci entomologi, né divulgatori scientifici. Eppure, nelle lunghe settimane di lockdown trascorse lontano dalla città, circondati da montagne d’argilla, i racconti di Marcel hanno comportato per noi un cambiamento di paradigma. Non che prima odiassimo gli insetti, né, in verità, abbiamo superato tutte le paure verso alcuni di loro; un incontro notturno con uno scarafaggio rimane spiacevole tuttora, ma non possiamo negare una curiosità nuova e uno slancio a comprenderne le fatiche e le trame.
Ogni argomento scientifico ha una carica umanistica. Marcel illustra le biologie dei piccoli animali con una prosa a tratti poetica, e i suoi libri contengono un invito ad allargare il proprio sguardo, nobilitando ciò che è più vicino a noi. “Chi guarda le formiche? Chi perde il suo tempo ad osservare il ragno geniale? Pochi maniaci, un pugno di sognatori. Il resto preferisce ipnotizzarsi sulla politica, sul prezzo del burro, sul più recente delitto. Abbiamo perduto il senso dell’universale, il paradiso terrestre è troppo lontano.” Scriveva Marcel. A Scuola Popolare abbiamo voluto condividere lo stesso invito e lo stesso sguardo.
L’animale che ha introdotto il nostro talk, non a caso, è stata la chiocciola: durante l’inverno riduce le sue funzioni vitali al minimo e crea una barriera al cui interno si ritira, in attesa dei primi caldi, ovvero di tempi migliori. Le nostre comunità si sono rinchiuse in loro stesse per un tempo che è sembrato infinito. Ma non si può stare chiusi in eterno: alla chiocciola basta poco per risvegliarsi e tornare a vivere, talvolta una sola goccia di rugiada. A noi, un pomeriggio come quello trascorso a Villa Romana ci ha fatto riscoprire il piacere dei momenti d’incontro, a lungo negati.
Campo Base (collettivo curatoriale)
How to fall in love with a place?
Campo Base (collettivo curatoriale)
How to fall in love with a place?
„Which place taught you to take care of life?
The nomad’s identity is a map of where s/he has already been; s/he can always reconstruct it a posteriori, as a set of steps in an itinerary. But there is no triumphant cogito supervising the contingency of the self: the nomad stands for movable diversity, the nomad’s identity is an inventory of traces. Were I to write an autobiography, it would be the self-portrait of a collectivity.“
Rosi Braidotti, Nomadic Subjects
Il 3 luglio 2020 abbiamo organizzato una sessione di storytelling nel giardino di Villa Romana, nell’ambito del ciclo di incontri della Scuola Popolare. Si intitolava How to fall in love with a place? e rifletteva sul valore politico generato dal sentimento di affezione per un luogo.
Lo storytelling è uno degli strumenti della pratica curatoriale di CampoBase: a partire dalla creazione di una comunità temporanea, esso dà vita a una narrazione corale che, dalle esperienze di ciascun narratore, produce significati che rappresentino valori condivisi e comuni.
In questi mesi post-pandemici ci siamo chiesti come uno strumento che si basa sulla prossimità possa adattarsi anche nella distanza, come l’intimità possa essere evocata al di là della presenza. Questo testo è il tentativo di imparare, a partire dai meccanismi della narrazione orale che si innescano quando siamo seduti in cerchio con altre persone, nuovi modi di sviluppare un ragionamento e nuovi percorsi per lasciare che si dipani sotto gli occhi degli altri. L’input che ci è stato dato da Angelika Stepken (che ringraziamo per averci chiesto queste righe) è riassunto nella domanda Who taught you to take care of life?. Abbiamo trasformato questa domanda in Which place taught you to take care of life?: questo perché, se crediamo di poter provare amore per un luogo, allora certamente possiamo affermare di poter imparare qualcosa da questo. Nel presente, la nostra storia d’amore con i luoghi è sempre più frammentata, discontinua, la cartografia tracciata dai nostri spostamenti si espande e sembra eludere il radicamento. Attraverso i nostri racconti possiamo dare forma a un corpo unico e dislocato, a una soggettività nomadica e collettiva. La stessa che in queste righe parla dicendo «noi» e della provincia ci ha insegnato a fare le cose metà per gioco, metà sul serio, ma sempre con metodo: un esercizio che ci ha permesso di resistere a un contesto senza scampo, e di percorrere strade nuove con la stessa passione e la stessa ostinazione. In un villaggio di pescatori sull’Oceano Atlantico abbiamo imparato ad attendere con gioia: come quando si è in mare aperto e le onde sono troppo grosse, abbiamo imparato a rimanere a largo aspettando che arrivi quella giusta che ci riporti a riva. A radicare i nostri sforzi nell’attesa, nello stare fermi, piuttosto che nel dispendio di energie per raggiungere un luogo più sicuro.
Ogni tanto, se ci pensiamo, non riusciamo a mettere a fuoco un luogo specifico: attraverso il nostro movimento costante abbiamo imparato a costruire un arcipelago di luoghi che custodiamo dentro di noi. Ognuno di questi ci parla con una sua voce, con i suoi odori, le luci e i suoni, e ci insegna a prenderci cura di noi stessi e degli altri. Per esempio, in una scuola di teatro al piano terra di un palazzo storico, abbiamo imparato ad ascoltare i corpi degli altri, muovendoci nello spazio senza sovraccaricarlo con la nostra presenza né lasciarlo vuoto: abbiamo capito quando è il momento di intervenire e quando è necessario fare un passo indietro, quando suggerire la battuta corretta e quando abbandonarci felicemente all’errore. Nel recinto di una casa in una grande città abbiamo sperimentato come un luogo possa metterci in difficoltà e insieme portarci a prenderci cura di noi stessi e degli altri: abbiamo capito come una stanza possa risucchiare la nostra vita privata e professionale, facendoci perdere i confini tra le cose: abbiamo imparato a ridisegnare questi confini da soli e con le persone con cui viviamo, attraverso l’evasione e il ritorno, la tutela e la condivisione.
Ancora, nel giardino di una villa sulle colline fiorentine abbiamo riscoperto come si possa attendere insieme il tramonto; abbiamo imparato a dire ad alta voce i nostri amori finiti, nuovi, felici, tristi, abbiamo ricominciato di nuovo a toccarci senza toccarci davvero.
Edoardo Malagigi (partecipante)
La ricostruzione individuale di una relazione con i sensi
Edoardo Malagigi (partecipante)
La ricostruzione individuale di una relazione con i sensi
Siamo alla fine di giugno 2020 da pochi giorni è iniziata a Villa Romana una rassegna di eventi, si chiama Scuola Popolare. Ci sono, ma non so bene se mi ha attratto il desiderio di riprendere le relazioni dopo il lockdown o trascorrere del tempo in uno spazio di grande libertà fisica e mentale.
Tu sai che qualsiasi cosa ti possa capitare in quella villa la annoveri sempre fra gli aspetti positivi della tua esistenza, complice la iperconservatrice città dove ha sede la villa? Forse! La mancanza di verde trattato in modo intelligente nella città di Firenze? Forse! Persone divertenti che la Villa attrae? Forse! Nel mio caso forse anche il ricordo di esperienze creative condivise? Certamente! Una di queste fu la Babel’s tower commestibile, realizzata con Gaetano Cunsolo.
Villa Romana ha sempre rappresentato per me il richiamo della foresta, foresta di canne, e prati verdi con frutti e tanti alberi.
Da sempre Villa Romana è stata per la nostra generazione uno spazio di cultura contemporanea, adesso con Angelika Stepken, le sue collaboratrici e collaboratori mi sembra sia diventato anche un luogo di ricerca e della qualità di vita, anche condotto con un certo rigore.
Un rigore che ho sentito anche in questo ultimo programma di Scuola Popolare, la presenza di tanti gruppi o soggetti singoli che narrano esperienze, condividono sperimentazioni, secondo percorsi spesso introspettivi.
Un godimento dei sensi e dell’anima, forse complice il distanziamento sociale, ognuno poteva guadagnarsi sedili, cuscini, pancali e durante l’ascolto assumere così posture molto personali. In quello spazio la pandemia non è stata soltanto motivo di dialogo e nuova narrazione ma piattaforma di condivisione perfetta, direi anche planimetrica, finalmente quel cerchio con le persone in un dialogo prossemico sempre rispettoso delle differenze culturali.
E dire che erano sempre presenti persone di culture differenti, e religioni differenti, e sensibilità differenti, e infanzie differenti, e con dolori differenti ma con tanto rispetto uno dell’altro.
Ogni tanto pensavo che tutta questa fresca delizia di scambi mattutini e serali ce l’avesse mandata il covid 19, il rallentamento di tanta frenesia, la ricostruzione individuale di una relazione con i sensi oramai perduta e tante altre pratiche più o meno naturalistiche amorevolmente raccontate.
Questi bei temi non sono mai stati trattati da esperti o da specialisti, si sa che anche la politica offre esperti, ma dagli artisti, giovani donne e uomini ma artisti, una bella decisione che non smentisce la storia identitaria e centenaria di Villa Romana, verrebbe così riconfermato che l’arte contemporanea è una categoria della cultura contemporanea.
Si sa gli artisti lavorano su temi costruiti dalle loro irrefrenabili passioni, e tutti gli artisti relatori coordinatori o conduttori hanno agito nella Scuola Popolare senza freni, i temi sono la loro vita e sofferenza vissuta e loro sono stati nudi, mi sono sembrati tutti belli e onesti, escluso uno, vestito, imbottito e abbottonato, in qualsiasi posto c’è sempre qualcuno che ha sbagliato indirizzo, non dirò chi è stato.
Tutti hanno portato con amore e generosità i grandi interrogativi come solo l’arte sa fare.
Edoardo Malagigi
Leone Contini (artista)
Digressioni para-vinicole. Villa Romana, luglio 2020
Leone Contini (artista)
Digressioni para-vinicole. Villa Romana, luglio 2020
Marzo 2020, pendici del Montalbano in provincia di Prato. L’Italia entra in lockdown e per me si apre un piccolo universo nel raggio di 300 metri da casa: una fornace di terracotta semi-crollata, vasche di raccolta per l’acqua piovana invase di rovi, canali di drenaggio ancora funzionanti dopo decenni di abbandono, un boschetto in fiore di ciliegi inselvatichiti, ributti di vigne al bordo delle strade, sotto forma di tralci striscianti da radici mai estirpate, o in cerca di arbusti a cui “maritarsi”, secondo il vecchio uso contadino, che sfruttava un albero come supporto vivente della vite.
Nella stasi della quarantena i sensi si abituano gradualmente a percepire le tracce di un paesaggio sommerso, al di sotto della patina sgargiante della Toscana cliché creata dall’industria cinematografica, alimentare, enologica e turistica, che abbiamo finito per confondere con la realtà. Questo infra-paesaggio dai colori desaturati, terrosi, che adesso intravedo come una trama onnipresente, è quel che rimane di un sistema economico dismesso, fatto di necessità, dove il cipresso aveva un valore d’uso specifico, ad esempio, perché il suo legno non si tarla, e non serviva a decorare i tornanti collinari (che nessuno più fotografa). Quel sistema estinto è come un grande corpo, che in 60 anni di abbandono è diventato sostrato nutritivo della flora selvatica, abitato da volpi, lepri, gatti randagi, daini e cinghiali – la notte li sento grugnire sotto casa, la mattina constato con frustrazione che le bietole selvatiche sono state divorate, la terra è arata in profondità dai grugni famelici in cerca delle radici dolciastre. Ho cominciato a mangiare erbe spontanee, per evitare le auto-certificazioni e le file davanti alla piccola coop locale, mentre la curva dei contagi si impenna e un focolaio in una rsa poco lontana uccide gli anziani del paese: nel giorno della morte della centenaria di Comeana una cappa di tristezza opprime la campagna (non come metafora ma come un fatto fisico, o almeno così mi appare).
Passano le settimane, senza il fluido economico che la nutre la patina sgargiante del #tuscanlifestyle è ormai sottile, lacerata. Viceversa il corpo sommerso è sempre più nitido, affiora continuamente alla superficie, come un popolo di fantasmi che si risveglia in sussulti.
La primavera procede e le erbe spontanee diventano fibrose, comincio a fare l’orto, ma la terra è fatta di argilla e sassi. Ora capisco l’ironia di Hu, che chiamava “montagna” la media collina, innamorato della terra grassa e fertile della sua piana, a 10 minuti da qui: “in montagna non cresce niente”, in Toscana come nella campagna di Wencheng della sua infanzia. E mentre i semi dei miei progetti (sembrano lontanissimi) germogliano in semenzai improvvisati (2 acquari rotti), scopro una cisternetta sotterranea: contiene il “bottino” dei contadini che abitarono qui, letame stagionato per decenni, almeno a partire dai primi anni 60 quando anche loro fuggirono verso la pianura in cerca di benessere. Passo le giornate sottoterra a scavare quella miniera di concime quasi mineralizzato, una vera manna, cerco di polverizzarlo e di liquefarlo, mentre i germogli si trasformano in piantine e le notti diventano tiepide. Poi la curva comincia a calare, lentamente, e le piante si radicano in piena terra. Quando la mobilità è ripristinata io resto fermo, la primavera diventa estate e l’orto entra nel pieno della sua produzione. Grazie al letame di mucche vissute 60 anni fa, le “pugua” nate dai semi di Hu penzolano enormi, ovunque, mentre i loro tralci si avviticchiano ai “tenerumi” lussureggianti delle cucuzze siciliane. Vedo la movida estiva imperversare sui social, un’estate euforica, turismo interno, mi dicono che in Maremma è tutto pieno come negli anni 80. Ma io non mi muovo, non piove da mesi e devo annaffiare anche 2 volte al giorno, per fortuna la sorgente regge e l’orto produce a ciclo continuo. Anche la campagna si riempie di allegria, specialmente la sera, dalle coloniche affittate ai vacanzieri si spandono risate e musica fino a notte fonda.
Una delle poche infrazioni a questo regime di simbiosi con le piante è a fine luglio per le “digressioni paravinivole”, a Villa Romana, un tentativo di trovare un mio punto di galleggiamento nel vino, che della Toscana agricola di oggi è la vera linfa, e in cui sono immerso dalla nascita, e di posizionarmi nel groviglio delle sue politiche, dalle implicazioni etiche dell’agricoltura sostenibile a ritroso fino alle cattedre ambulanti di agricoltura che predicarono per prime il progresso e la modernità nelle campagne, delegittimando conoscenze secolari, esautorando le pratiche dei contadini a partire dai modi di coltivazione della vite fino alle tecniche di vinificazione, per creare un prodotto stabile, conservabile, esportabile, standardizzato, prestigioso.
Forse quelle digressioni hanno scavano dentro di me nuove possibilità. E mentre il contagio sale nuovamente, stavolta non come un’onda ma come una marea, il mosto ribolle in quella che fu la stalla delle mucche e negli anni 90 lo studio di un pittore olandese, dopo settimane di vendemmia selvaggia tra vigne abbandonate, abitate da lepri e fagiani, mai potate e mai trattate da anni. E in questo tempo di mobilità ridotta mi dedico a esperimenti di micro-vinificazione a partire da grappoli enologicamente inutilizzabili, perché spargoli, troppo maturi o ancora acerbi, generati da quelle viti fuoriuscite dal cerchio millenario della domesticazione, per “maritarsi” alla boscaglia.
Virginia Zanetti (artista)
Be a poem
Virginia Zanetti (artista)
Be a poem
L’emergenza del COVID-19 ha spostato l’atto creativo all’interno della vita stessa ma la poesia si rivela ancora uno dei migliori mezzi per trascendere il Tempo.
Il ricamo è una buona tecnica per indurre alla meditazione e calmare la mente e può diventare un buon mezzo per comunicare. Durante l’isolamento ho scritto dei pensieri ed utilizzato il filo d’oro per ricamarle su capi di abbigliamento personali.
Poi ho deciso di condividere con altre persone questa pratica, nell’ambito di Scuola Popolare, ripensando un progetto di performance collettiva che avrei dovuto fare a Marsiglia per Manifesta 13 invitata da Lori Adragna.
Ho scelto un luogo intimo del parco di Villa Romana, sotto a un albero di ulivo che ci ha riparati dalla calura estiva, il nostro dialogo è stato scandito dal canto d’amore delle cicale. Abbiamo sperimentato un differente tempo sospeso.
Ognuno ha espresso un proprio pensiero su questo periodo di isolamento e lo ha ricamato.
Queste frasi sono diventate una serie di poesie da indossare insieme per costruire una grammatica condivisa capace di superare confini ed isolamento.
زیر باران باید رفت (under the rain we must go ), Davood Madadpoor
take care of the one you love (prenditi cura di chi ami), Pamela Barberi
lupa (she wolf), Alice Ferretti
non è facile stare lontano da chi si ama (it is not easy to stay away from those you love), Lamin Cesay
confiance (faith), Maria Baldini
love one another (amarsi l’un l’altro), Bakary Suwareh
trust the silence (fidati del silenzio), Francesca Pirami
tutto è perfetto (all is perfect), Daniele Giannetti
respiro resiliente (resilient breathing), Simona Di Pasquale
conosci il tuo infinito (discover your infinity), Carla Bono
L’opera video di questa esperienza è il mio contributo per ARKAD, progetto curato da Dimora Oz e Analogique, un progetto di KAD per Manifesta 13, Le parallèles du sud.