„Which place taught you to take care of life?
The nomad’s identity is a map of where s/he has already been; s/he can always reconstruct it a posteriori, as a set of steps in an itinerary. But there is no triumphant cogito supervising the contingency of the self: the nomad stands for movable diversity, the nomad’s identity is an inventory of traces. Were I to write an autobiography, it would be the self-portrait of a collectivity.“
Rosi Braidotti, Nomadic Subjects
Il 3 luglio 2020 abbiamo organizzato una sessione di storytelling nel giardino di Villa Romana, nell’ambito del ciclo di incontri della Scuola Popolare. Si intitolava How to fall in love with a place? e rifletteva sul valore politico generato dal sentimento di affezione per un luogo.
Lo storytelling è uno degli strumenti della pratica curatoriale di CampoBase: a partire dalla creazione di una comunità temporanea, esso dà vita a una narrazione corale che, dalle esperienze di ciascun narratore, produce significati che rappresentino valori condivisi e comuni.
In questi mesi post-pandemici ci siamo chiesti come uno strumento che si basa sulla prossimità possa adattarsi anche nella distanza, come l’intimità possa essere evocata al di là della presenza. Questo testo è il tentativo di imparare, a partire dai meccanismi della narrazione orale che si innescano quando siamo seduti in cerchio con altre persone, nuovi modi di sviluppare un ragionamento e nuovi percorsi per lasciare che si dipani sotto gli occhi degli altri. L’input che ci è stato dato da Angelika Stepken (che ringraziamo per averci chiesto queste righe) è riassunto nella domanda Who taught you to take care of life?. Abbiamo trasformato questa domanda in Which place taught you to take care of life?: questo perché, se crediamo di poter provare amore per un luogo, allora certamente possiamo affermare di poter imparare qualcosa da questo. Nel presente, la nostra storia d’amore con i luoghi è sempre più frammentata, discontinua, la cartografia tracciata dai nostri spostamenti si espande e sembra eludere il radicamento. Attraverso i nostri racconti possiamo dare forma a un corpo unico e dislocato, a una soggettività nomadica e collettiva. La stessa che in queste righe parla dicendo «noi» e della provincia ci ha insegnato a fare le cose metà per gioco, metà sul serio, ma sempre con metodo: un esercizio che ci ha permesso di resistere a un contesto senza scampo, e di percorrere strade nuove con la stessa passione e la stessa ostinazione. In un villaggio di pescatori sull’Oceano Atlantico abbiamo imparato ad attendere con gioia: come quando si è in mare aperto e le onde sono troppo grosse, abbiamo imparato a rimanere a largo aspettando che arrivi quella giusta che ci riporti a riva. A radicare i nostri sforzi nell’attesa, nello stare fermi, piuttosto che nel dispendio di energie per raggiungere un luogo più sicuro.
Ogni tanto, se ci pensiamo, non riusciamo a mettere a fuoco un luogo specifico: attraverso il nostro movimento costante abbiamo imparato a costruire un arcipelago di luoghi che custodiamo dentro di noi. Ognuno di questi ci parla con una sua voce, con i suoi odori, le luci e i suoni, e ci insegna a prenderci cura di noi stessi e degli altri. Per esempio, in una scuola di teatro al piano terra di un palazzo storico, abbiamo imparato ad ascoltare i corpi degli altri, muovendoci nello spazio senza sovraccaricarlo con la nostra presenza né lasciarlo vuoto: abbiamo capito quando è il momento di intervenire e quando è necessario fare un passo indietro, quando suggerire la battuta corretta e quando abbandonarci felicemente all’errore. Nel recinto di una casa in una grande città abbiamo sperimentato come un luogo possa metterci in difficoltà e insieme portarci a prenderci cura di noi stessi e degli altri: abbiamo capito come una stanza possa risucchiare la nostra vita privata e professionale, facendoci perdere i confini tra le cose: abbiamo imparato a ridisegnare questi confini da soli e con le persone con cui viviamo, attraverso l’evasione e il ritorno, la tutela e la condivisione.
Ancora, nel giardino di una villa sulle colline fiorentine abbiamo riscoperto come si possa attendere insieme il tramonto; abbiamo imparato a dire ad alta voce i nostri amori finiti, nuovi, felici, tristi, abbiamo ricominciato di nuovo a toccarci senza toccarci davvero.